Le statistiche più recenti mettono in luce un dato poco confortante: si abbassa l’età della diagnosi di tumore e aumenta quella in cui si diventa genitori per la prima volta. Risultato: ci sono sempre più figli piccoli con genitori che si ammalano di tumore, costretti a confrontarsi con vissuti di paura, preoccupazione, angoscia e sofferenza. Tali aspetti risultano ancor più significativi se si considera che in Europa e nel nord America oltre il 25% dei soggetti affetti da neoplasia ha uno o più figli di età inferiore ai 18 anni (De Benedetta G., Ruggiero G., Pinto A., 2008).
Questo pone la difficile questione sulla possibilità di informare o meno il figlio minore circa la malattia da cui la mamma o il papà è affetto.

I genitori tendono comprensibilmente ad utilizzare nei confronti dei figli un atteggiamento protettivo che spesso si concretizza nella dissimulazione. Sentono di poter gestire l’impatto della malattia e quanto comportato dalla stessa chiudendo prima la porta della camera, poi della cucina, poi del bagno…. Non possono e non vogliono assolutamente che il malessere, il disagio, la sofferenza della malattia contagi emotivamente i figli. “Sono ancora così piccoli”, “sono in una fase delicata”, “sono bambini…”.
E’ davvero difficile, un fulmine a ciel sereno che modifica improvvisamente l’assetto dell’intero nucleo familiare. Ma è proprio per questo motivo che la malattia non può e non deve essere considerata prerogativa del “soggetto portatore”: quando il cancro entra in famiglia è di tutti, figli compresi.

Rispondere a quanto accade con il silenzio, senza essere consapevoli che il silenzio spesso veicola molti più significati di quanto non facciano le parole, induce una distanza pericolosa, che può alimentare un disagio psicologico. Le domande, i pensieri e le emozioni in merito alla malattia che non trovano spazio per esprimersi, che non sono accolti né legittimati, rischiano di trasformarsi in sentimenti di colpa, di abbandono e in moti aggressivi.
A tal proposito J. Bowlby scrive “I bambini leggono con grande prontezza i segnali. Se un genitore ha paura dei suoi sentimenti, anche i figli nasconderanno i loro sentimenti. Se un genitore preferisce il silenzio, i figli presto o tardi smetteranno di fare domande. Parecchi osservatori fanno notare quanto i bambini siano in realtà intensamente desiderosi di sapere qualcosa di più……ma sottolineano che spesso le loro domande sono eluse o ignorate” (Bowlby J., 1983).

Bisogna allora imparare a fabbricare nuove parole, in un nuovo spazio in cui, nel rispetto del diritto all’informazione di ogni membro del nucleo familiare, sia possibile dare forma e voce ai nuovi vissuti emotivo-cognitivi veicolati dalla malattia.
Evitare la condotta del “buio comunicativo” (Crotti N., Broglia V., Giannetti C., 2007) permette di non lasciare i figli fuori dalla porta, a cui sono comunque saldamente appoggiati per cercare di “captare segnali“ e attribuire un significato ai cambiamenti che la malattia inevitabilmente porta con sé. Farli entrare nella “fabbrica” significa evitare loro sentimenti di solitudine e di isolamento, attribuire un ruolo attivo alla loro presenza, ripristinare aspetti vitali nel genitore che spesso si spengono quando si parla di cancro.

La fabbrica della comunicazione emozionale può essere il divano su cui tutti si ritrovano, può essere il momento in cui si pranza o si cena, può essere una passeggiata, il lettone o un tratto di strada da percorrere insieme in auto oppure, quando si è molto in difficoltà, la poltrona di uno psicologo a cui poter chiedere di essere, in un momento così complesso e faticoso, la funzione pensante che tanto si fatica a ritrovare. Affronteremo in un successivo articolo come e quando accedere ad un percorso di consultazione psicologica o supportivo e cosa accade in esso.
Qui mi preme ribadire che ovunque avvenga la comunicazione, quello che conta è che ognuno abbia, a propria misura, uno spazio e un momento in cui dare voce alle fatiche, ai dubbi, alle domande, alle preoccupazioni, alle angosce vissute.

Non deve essere la malattia il centro, anche se può essere utile accennare ai figli, compatibilmente con la loro età e le loro capacità cognitive, cosa stia accadendo alla mamma o al papà, quali saranno i passaggi e i tempi che la malattia comporta, quali gli effetti delle cure come per esempio la perdita dei capelli o il vomito. L’obiettivo è rassicurarli, dare senso e significato a ciò che accade, farli sentire meno soli con le loro domande perché se non sono i genitori a dare risposte ci penserà il figlio, ma con strumenti che non sono ancora in grado di leggere e comprendere la realtà interna ed esterna.

Potranno anche scendere delle lacrime e non c’è nulla di sbagliato in questo: insegneremo ai bambini che le emozioni esistono per tutti e non ci devono spaventare, legittimeremo loro il fatto che si può gioire come anche essere tristi. Aiutare ad esprimere e gestire le emozioni è uno dei più grandi regali che si possa fare ai propri figli. Così come favorire una comunicazione aperta e sincera, perché aprirà la strada, nel presente e nel futuro, a qualsiasi altro confronto.

 

BIBLIOGRAFIA

  • AIMaC (Associazione Italiana Malati di Cancro, parenti e amici) (2008). Cosa dico ai miei figli? Una guida per i genitori malati di cancro. Opuscolo informativo
  • Bowlby J. (1983). Attaccamento e perdita, vol. III La perdita della madre. Bollati Boringhieri, Torino
  • Crotti N., Broglia V., Giannetti C. (2007). Psiconcologia: il supporto al paziente e alla famiglia. Comunicare con il partner, i figli e la società. Riv. Ist. Ost. Gin. 2007, Vol.14: pg. 682-687
  • De Benedetta G., Ruggiero G., Pinto A. (2008). Genitori e figli: il “parenting” nei pazienti oncologici. Un aspetto ancora poco considerato nella gestione delle malattie neoplastiche, Recenti progressi in Medicina, Vol. 99, n°1, Gennaio 2008: pg. 19-26

 

Dott.ssa Elisa Longari
Psicologa Psicoterapeuta