Secondo Carl Rogers, uno dei padri della Psicologia Umanistica e fondatore della Terapia Centrata sul Cliente, tra gli elementi fondamentali di ogni relazione di aiuto ed educativa ci sono tre condizioni necessarie e sufficienti.

Non si tratta di tecniche, ma di atteggiamenti che hanno a che fare con un modo di essere che facilita la crescita e la consapevolezza.

La relazione d’aiuto può essere definita come quel rapporto interpersonale che intercorre tra terapeuta e paziente e che sostanzia il processo di aiuto al fine di favorire la crescita e la consapevolezza della persona.

Non si attiva spontaneamente ma va creata e sostenuta.

La diagnosi di tumore è uno degli eventi più temuti. Forse perché, oggi più di prima, lo conosciamo molto bene, soprattutto nei suoi effetti, nel suo impatto sulla persona e su chi la circonda, nelle cure che implica ed in ciò che esse comportano. Associamo dolore, sofferenza, rabbia, lunghi tempi di attesa, poi parrucche, foulard, stanchezza, interventi chirurgici.
Lo conosciamo, in qualche modo, eppure quando arriva la diagnosi siamo comprensibilmente e totalmente impreparati: “Cosa devo fare? Come mi devo muovere? Cosa succederà?”

Le statistiche più recenti mettono in luce un dato poco confortante: si abbassa l’età della diagnosi di tumore e aumenta quella in cui si diventa genitori per la prima volta. Risultato: ci sono sempre più figli piccoli con genitori che si ammalano di tumore, costretti a confrontarsi con vissuti di paura, preoccupazione, angoscia e sofferenza. Tali aspetti risultano ancor più significativi se si considera che in Europa e nel nord America oltre il 25% dei soggetti affetti da neoplasia ha uno o più figli di età inferiore ai 18 anni (De Benedetta G., Ruggiero G., Pinto A., 2008).
Questo pone la difficile questione sulla possibilità di informare o meno il figlio minore circa la malattia da cui la mamma o il papà è affetto.

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